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C’era una volta un locale che ti chiamava per Nome. Un posto dove stavi in coda a mostrare una tessera e un documento. A volte fuori al freddo, a volte ammassato lungo una rampa. Altre volte dribblando le file perché già timbromunito. C’era sempre un caffè. Alle riunioni private. Prima dell’apertura delle porte. A fine serata, se dovevi guidare.

C’era una strana vista, lì fuori. Un eterno cantiere, circondato di reti rosse, di ferri rossi, di muri che cadono e strutture che, lentamente, crescono. Ultimamente c’era una luce viola, forse utile a sterilizzare le spade di chi festeggiava a proprio modo sotto l’arco.

Cinquanta metri più in là un cantiere di cultura. In mezzo al grigio ed al nero che contrastavano con i colori in arrivo, una piccola perla visibile ad occhio chiuso. Tutto piccolo. Il palco, la console, il camerino. Il bancone, pure, nelle serate più affollate. La cassa, le casse, il tavolo delle tessere.

Eppure sembrava tutto così grande. Grande nelle serate vuote, quando serviva una tenda a chiuderne un pezzo. Grande nelle serate piene, quando era la musica, la buona musica a trionfare.

Ma la musica vinceva sempre. Band che non avresti mai immaginato di vedere in una città come Padova. Band che avresti sentito solo da un file rar scaricato chissà dove. Lì i file rar diventavano cd, vinili, inneschi di amplificatori, preludi di imminenti rivoluzioni in sette note. No, forse sette erano poche, perché i suoni che sentivi all’Unwound difficilmente li sentivi altrove. C’era il gusto di pagare il biglietto per una band dal nome sconosciuto, dal nome difficile.. dal nome ti piaceva. E se già la conoscevi avresti fatto centinaia di km per vederla.

La sera prima eri lì per vedere Il cielo sopra Berlino. La sera dopo per bere un paio di bicchieri. Altre due sere e facevi parte dello sgabello. Incollato al tuo culo, mentre il tuo bicchiere quasi vuoto si riempiva di nuovo. Per mano delle stesse persone che, magari, la sera prima ti avevano risposto male perché eri senza documento.

Era anche questo. Era rigare dritto. Era fare cultura, e non solo con arti diverse dalla musica (con buona pace dei benpensanti dei miei coglioni che non vogliono rumore), era elettronica e rock, erano gli Ovo e i Melvins, era la cantante dei Jackie-O Motherfucker che usciva dal camerino e cantava All tomorrow’s parties, che avevi infilato nel lettore cd. Era un impianto che spesso cambiava, perché si era partiti ‘in piccolo’ e si cresceva, anche in console. Era trovarsi come fonico un cantautore bellunese ed accorgersene solo mentre compilavi le siaeudate carte.

Era un parcheggio con il cancello da tirare a fine serata. O le serrande da scavalcare aprendosi i pantaloni. Era il posto dove le forze dell’ordine arrivavano spesso, per andarsene in fretta visto che andava tutto bene, e il casino arrivava da una casa privata a due passi. O almeno così sembrava. A tutti, ‘controllori’ compresi.

Poi ci è stato portato via. Un po’come quando ti dicono che la vita non è tua ma del Creatore. Un po’strano per un locale che ti chiamava per Nome. Sorridendo.

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