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Potrebbero essere due nomi di band. Potrebbe essere una frase finto-poetica del menga ottima per aprire un post in un blog. La scelta sta al lettore, ma quello che è certo è che con il 2012 è iniziata “l’olimpiade” delle reunion, più che quella di Tiziano Ferro.

La prima sincera apparizione in campo musicale di “in it for the money” risale a uno Zappa d’annata 1968. Con le dovute modifiche ed i paragoni, tale frase venne riesumata dai Supergrass per un album, giusto un anno dopo l’entrata nelle corde di un sexpistola qualunque come Rotten.

L’anno 2012, a dispetto del sole che ha accompagnato il suo arrivo, è un libro dalla brutta copertina, curata da una tale Maya. Dev’essere una hipster, un residuato di Myspace. Una di cui tutti parlano senza averla vista, come la figa in prima media. Forse indagherò a riguardo. Ciò che è certo è che si sta correndo ai ripari, come in una corsa ad ostacoli nelle corsie di un supermarket musicale prima dell’imminente guerra: letteralmente decine di band stanno correndo ai ripari con nuovi tour, nuovi album, nuovi singoli, nuovi buoni sentimenti. Libro consigliato: “L’amico ritrovato”.

Biglietti a 69 euro per un orfano del grunge che veste Timbaland assieme ai rifiutati per definizione. Pubblico dai capelli arcobaleno, dal bulbo trasparente al Nerogiardini.

Eppure ci fa tanto bene. Come i Faith No More con l’M-Audio sul palco tre anni fa, mentre Patton mangia e vomita lacci di Converse invecchiati 20 anni. Più di un buon Talisker. Come Macca che si è mangiato altri Fab Three.

Nostalgia canaglia, dissero due precursori che, probabilmente, non si riuniranno mai, persi nella nebbia in val padana di Cochi e Renato che insieme non funzionano più, come quel duo sfrecciava al Jolly Blue, come quei Fogli non mancanti ai Pooh. In Italia la nostalgia non funziona per le spezzate unioni nostrane. Sarà forse l’alta cucina imperante, che preferisce una pizza fredda a una minestra riscaldata. Sarà che preferiamo l’erba del vicino, meglio se olandese. Sarà che spendiamo volentieri tanti dei pochi contanti che abbiamo per rivedere unattimoancora una band straniera, o vederla per la prima volta per parlarne a chi già c’era, maledetta primavera.

E dire che la primavera musicale non sembra conoscere fine, nel Belpaese. Gli indie-pendenti salgono in classifica e sui palchi, sdoganati anche dai benpensanti da turn-o-matic al supermercato con una colonna sonora che mette qualcosa di nuovo nell’aria, anzi, d’Endrigo. Le colonne portanti della discografia continuano a produrre, chi bene, chi male. Attingiamo all’estero quanto possiamo, ma nemmeno un intero Pakistan fiorisce quanto Sanremo. Ed in mezzo a talent show, seguendo un flow da Cefalù che sale fino a Washington o Walthamstow, ci rimbocchiamo le flanelle, mettiam da parte i nuovi nomi che a fatica oggi impariamo e ripassiamo dentro un monitor le liriche di pezzi che un tempo studiavamo dalla custodia di un 33 giri, da un libro Arcana, da un diario da infilare in uno zaino, teatro di esercizi da amanuensi.

Non ci è bastato Sting con i Police, perché negli anni abbiamo imparato a portarli in volto, su un paio di stanghette. Nemmeno i Sex Pistols a fare a botte al Banquet-to dei Bloc Party. Abbiamo bisogno di altro. Tra un Sole del buco nero e i resti di un paio di forbici cerchiamo forse nuova linfa da vecchie ispirazioni.
O la voglia di un nuovo pogo a gomiti alti.

Più semplicemente, spesso, rivivere un concerto divertente ai tempi dell’innocenza o della grande forza fisica, può essere un’occasione per divertirsi di nuovo, in mezzo a una miriade di eventi su cui fare un click per ritrovarsi ad ascoltare musica superficialmente, citando Napo, guardandosi intorno per riconoscere persone e ‘taggarle’ col pensiero.

Qualcuno ci farà dei soldi, altri ne perderanno molti, qualcuno gioirà per mesi con la lacrima ed altri se ne pentiranno.

“Te l’ho detto: è l’umidità.”

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